giovedì 20 ottobre 2016

Cosa mangia il pesce che mangi?

Se non te lo sei mai domandato forse è il caso di farlo perché un recente rapporto di Greenpeace, Plastics in seafood, che riunisce vari studi condotti in più paesi, evidenzia il problema delle microplastiche nei mari di tutto il mondo e il rischio inquietante per la nostra alimentazione.

Di rifiuti in mari e oceani, purtroppo, ce ne sono tanti. Troppi: plastica, bottiglie, barattoli e altri oggetti vari, senza considerare l’affondamento, volontario o accidentale, di container e fusti tossici.
La plastica, nello specifico, costituisce non solo un pericolo ambientale, ma anche un pericolo importante per la nostra salute. Mentre infatti i pezzi più “grossi” di questo materiale (con diametro o lunghezza maggiore di 25 millimetri, oppure tra 5 e 25 millimetri) finiscono negli stomaci di uccelli e mammiferi marini provocandone la morte, le particelle di diametro o lunghezza inferiore ai 5 mm, dette appunto microplastiche, una volta arrivate in acqua, possono sia assorbire che cedere sostanze tossiche, e vengono ingerite da numerosi organismi: pesci, crostacei, molluschi.

Le cozze, le vongole o le ostriche, ad esempio, possono semplicemente contaminarsi con l’acqua che filtrano per nutrirsi, mentre i pesci possono ingerire le microplastiche sia direttamente, scambiandole per prede, che attraverso il consumo di prede contaminate.
Questo fenomeno è ampiamente documentato. Ad esempio su 121 esemplari di pesci del mediterraneo centrale (tra cui specie molto consumate come il pesce spada, il tonno rosso e tonno alalunga) uno studio ha identificato la presenza di frammenti di plastica nel 18,2% dei campioni analizzati.
Analogamente, studi condotti su 26 specie di pesci delle coste atlantiche portoghesi hanno evidenziato la presenza di microplastiche nel 19,8% dei campioni di pesci analizzati: i quantitativi più elevati sono stati ritrovati nel lanzardo (Scomber japonicus), una specie simile allo sgombro.
Un altro studio citato nel rapporto, sugli scampi (Nephropos norvegicus), ha dimostrato invece la presenza di frammenti di plastica nello stomaco dell’83% degli esemplari raccolti lungo le coste britanniche.

Purtroppo non ci sono ancora ricerche sufficienti a definire con certezza gli impatti sulla salute umana derivante dalla presenza di queste microplastiche in mare e dal loro trasferimento e accumulo lungo la catena alimentare, ma non bisogna essere dei geni per capire la pericolosità di questa situazione. Penso che i dati già disponibili confermino la necessità di applicare il principio di precauzione limitando il consumo delle specie più esposte.


Impegnamoci, inoltre, a tenere pulite spiagge e acque. Tutti quanti. Perché la terra è la casa di tutti. E ciò che accade in un posto, per quanto possa sembrare un luogo lontano, presto o tardi ci riguarderà da vicino.

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